Ve lo confido subito: parlerò di qualcosa di cui non sono proprio profana. Ne parlerò perché negli ultimi giorni mi sono capitati sotto agli occhi due esempi di questo qualcosa, che è poi un’arte. Il primo esempio si chiama Krzysztof Iwin: Facebook porta il vantaggio d’incappare in personaggi che altrimenti, probabilmente e purtroppo, non avresti mai conosciuto. Iwin è uno di questi. I suoi dipinti mi hanno fatto fermare per qualche mezzora a osservare. Poi c’è il secondo esempio: Leonid Afremov. Pure in questo caso il mezzo della conoscenza è stato Facebook: un mio amico rifletteva su come, per lui, i suoi quadri fossero del tutto privi di sostanza, si limitassero semplicemente a una tecnica ripetuta, e non comunicassero nulla.
Mi sono detta allora: perché non dedicare il primo post di dicembre ai pittori e a quel buon pezzo della mia vita speso tra il Liceo d'Arte e l' Accademia di Belle Arti?
Ed eccoci qua.
Veri fuoriclasse
Comincio con
Ricordi via Roma, il che equivale a dire comincio con
Amedeo Modigliani. Le sue donne dal viso affusolato le avrete viste di certo. Modigliani fu pittore e uomo
tormentato, nel corpo e “nello spirito”,
come si dice, da giovane e da adulto. Sprofondò senza remore
nell’alcool, portando a scelte estreme anche chi gli viveva accanto.
L’autrice, una storica dell’arte, ce lo racconta questo pittore
tribolante, cercando di
ripulirlo dalle tante leggende che gli crebbero intorno.
Usciamo dall’Italia e andiamo
in Olanda, allontaniamoci dalla contemporaneità e
finiamo nel ‘600. Il nome
Max Kozloff
nel nostro Paese dice poco, a chi non è addetto ai lavori, in realtà è
uno dei più importanti critici dell’arte del mondo. Se vi dice poco
anche il nome Vermeer, vi dirà di certo molto
Ragazza con l’orecchino di perla. Kozloff, in
La luce di Vermeer, parla del pittore chiedendosi:
perché quelle figure umane che lui ha dipinto sono diventate icone?
Cioè, perché hanno resistito al tempo e, a qualsiasi cultura si
appartenga, smuovono una nostra parte interiore, nel momento in cui le
guardiamo?
Ora
spostiamoci proprio oltre Oceano, torniamo
ai tempi nostri, e parliamo di
Keith Haring. C’è una parola da introdurre:
graffitismo,
perché è soprattutto per questa pratica che è conosciuto: dalle
metropolitane di New York, al Muro di Berlino, alla chiesa di
Sant’Antonio Abate a Pisa. Giovane travagliato anche lui, si ammalò di
Aids, e ci lasciò a soli 31 anni. Ma il suo stile unico fece in tempo a
imprimersi solidamente. Il mese scorso, in libreria, sono arrivati i
suoi
Diari.
Ora fingiamo
Infine, un po’ di finzione. Letterariamente parlando. Prendiamo
¡Viva la Vida! di
Pino Cacucci.
È un’opera di finzione, sì, ma si presenta come testimonianza
autobiografica diretta di una delle più note pittrici del secolo scorso:
Frida Kahlo. Cacucci ha vissuto seriamente il Messico, e ha avuto modo di conoscere il culto che là ne hanno fatto. In questo
monologo pronunciato agli estremi
della vita, costruisce una Kahlo che ricorda tutto ciò che più l’ha
forgiata e l’ha fatta diventare la pittrice che è stata: l’incidente a
18 anni e il conseguente rapporto violento col proprio corpo, la
politica, l’amore sofferto per Diego Rivera, col quale si sposò, poi
divorziò, poi si risposò.
Ultimo, un romanzo vero e proprio. Si chiama
Nel museo di Reims, l’ha scritto
Daniele Del Giudice. Al centro un uomo che
sta perdendo ciò che la pittura chiama in causa
in primis:
la vista.
Nel tempo rimastogli per vedere, vorrebbe fissare in mente i più grandi
capolavori pittorici di tutti i tempi. È per questo che va al museo di
Reims, è per questo che chiede a una donna di descrivergli i quadri.
Aggiungiamo
un’ossessione, che ha il nome di un dipinto: La morte di Marat di Jacques-Louis David.