<<... Quanto li abbiamo amati, i libri! Ed
eccoci nel mercato dei libri. Fu un piacere vederne tanti, ma il piacere
si guastò subito, perché i libri erano troppi.
L’altissima concentrazione di parole
stampate sprigionava energie quasi solari, ma di sole nero. In ogni
parola c’è una piccola forza capace di agire, bene o maleficamente, a
seconda delle combinazioni. Certe parole possono anche agire da sole;
sono le più pericolose; per fortuna non sono molte. Quando le
combinazioni sono troppe (in un libro ce ne sono parecchie migliaia) ne
risulta un eccesso di energia che è prevalentemente malefico. Un milione
di libri eccellenti emanano raggi di morte.
Dopo qualche minuto sudavamo come se ci
avessero voltolati nel fango termale. I libri irrompevano da tutte le
parti con l’impeto dell’armata di Budiennij. Dall’alto cadevano
enciclopedie, storie delle varie letterature, manuali di cucina, di
economia, di sociologia, di pedagogia, di psicologia: si stava caldi
come i sudditi di Sodoma sotto la pioggia di mattoni infuocati.
Ci armammo di speciali ombrelli
paralibro, fatti di una sostanza assolutamente refrattaria ai libri, e
spalmati di una vernice repellente, che li rispediva alla causa di
tutto, i loro autori, la più contumace gente che esista, e questo
geniale strumento profilattico, inventato all’epoca del telegrafo e
subito imprudentemente messo da parte, ci consentì di non riportare
danni durante l’ardita visita ai reparti. Offrimmo parecchi ombrelli a
persone smarrite e doloranti, e distribuimmo anche drastiche dosi di
polvere libricida da spargere sulle copertine, senza molto successo:
c’era, come al solito, poca richiesta di essere beneficati.
L’aggressività dei libri nuovi era
implacabile: volevano essere letti subito, volevano che si parlasse e si
scrivesse subito, con grande passione, di loro. Gli autori, da una
immensa tribuna, seguivano con potenti binocoli le vicende dei loro
libri. Mentre una mano reggeva il binocolo, l’altra batteva sui tasti di
una macchina, da cui uscivano fogli fradici di parole, chiamati ancora manoscritti,
e li passava in fretta all’Editore, il quale facendo uso di sistemi di
riproduzione meccanica sempre più celeri, li spediva da speciali basi
molto simili alle militari moderne all’attacco delle città in
determinati periodi dell’anno.
Cosi l’occhio, senza staccarsi dal
binocolo, doveva a volte seguire le peripezie di due o tre libri nello
stesso tempo, che erano sempre le stesse e per fortuna piuttosto rapide.
Voci svergognate annunciavano senza riposo nuovi libri; ciascuno era
un’epifania: un discorso implacabile, condotto all’estremo
risuonava da un capo all’altro del mercato dei libri, che era grande il
doppio o il triplo di quello del nutrimento. Avremmo preferito che il
discorso s’interrompesse a metà, o non cominciasse neppure, ma visto che
doveva essere condotto fino all’estremo di se stesso (cosa paurosa,
perché un discorso ha la stessa natura della linea retta, e può
continuare all’infinito), non restava che tenere l’ombrello sempre
aperto e non permettere al discorso di perforarci. Tra gli autori
risuonavano sovente grandi bestemmie, imprecazioni all’indirizzo di
oscuri anonimi, o di qualcuno, come: il maledetto non ne vuole parlare, hanno fatto una congiura quei porci, Buconero non ha capito niente, niente!, Odorico è uno schifoso, ma anche esclamazioni di giubilo sfrenato: tre colonne sul Colombo Sedentario!, candidato con Empedocle allo Stromboli!, tradotto in cuneiforme!, best-seller nello Sheol!, mi ha scritto personalmente Boggiaroni che e difficilissimo!
Non mancavano, dopo ogni delusione, le consolazioni pronunciate a bassa voce, in cui tremava nel dolore una delizia estrema: è un libro per pochi, il successo è dei cretini, è sempre stato così.
Notammo (era nuovo) un’estrema sfiducia degli autori nel Lettore
Postero; non solo temevano, giustamente, di non poterlo conquistare, per
la morte precoce dei loro libri, ma che addirittura non arrivasse mai a
leggerli, per la sua propria inesistenza, dovuta a cause a cui i libri
non erano, forse, del tutto estranei.
Intorno ai Suffeti del Libro, investiti
del potere celeste di dichiarare ottimo ogni libro, si svolgevano risse
da taverna per ottenere dichiarazioni di ottimità totale o, almeno,
parziale (non si scendeva al di sotto del parziale), da parte
dell’autorità suffetale. Le dichiarazioni erano ambitissime, nonostante
il loro scarso credito, dovuto alla velocità con cui venivano emesse e
all’uggiosità del loro stile […]. I Suffeti e i loro subalterni, una
truppa di scherani di ventura, mal pagata e sofferente, sempre accampati
tra i libri, come gli Unni tra i loro cavalli, vivevano una vera
guerra. Si asciugavano gli occhi sanguinanti, schizzavano di qua e di là
come rospi spaventati. La vita dei massimi Suffeti era costantemente in
pericolo, perché un libro trascurato o trattato con durezza poteva
vendicarsi vigliaccamente. Il loro linguaggio era sovente complicato o
sfuggente per evitare una lode che sentivano troppo impura, insieme
all’inevitabile rappresaglia. Per assicurarsi l’immunità, i più usavano
tenere sempre pronta, in una marmitta tiepida, una colla commestibile, o
una zuppa pitturabile, composta di ingredienti di questo tipo:
Il libro più importante dell’anno.
Un caso letterario tra i più sconcertanti.
Un saggio nuovo, acuto e sorprendente.
Un eccezionale contributo.
Con finissima introspezione.
Il romanzo di una crisi e di una società.
Mette a nudo il tramonto dei valori.
Un volume composito.
Una lettura da farsi su più piani.
Una lucidità implacabile.
Tutto un mondo segreto.
Una testimonianza sconvolgente.
Lo specchio di un’epoca.
Un trentennio di pazienti ricerche.
La tragedia di un uomo e di un popolo.
Uno stimolo per il lettore intelligente.
Una spietata autoanalisi.
Un brillantissimo esordio.
Un grande ritorno.
Pervaso da un’alta malinconia.
Lo aspettavamo a questa prova.
Una prosa che incide.
Apocalittico.
Il suo libro migliore.
Una decina di queste cucchiaiate,
rendevano quasi innocuo il pungiglione di un libro. Le carabine al
curaro degli Autori, i pozzi di murene degli Editori risparmiavano il
prudente Suffeta che riceveva, in segno di gratitudine, altri libri.
Generalmente, avuta la loro miserabile razione, i libri se ne andavano a
morire in un apposito cimitero, non lontano dal mercato, dov’era aperta
giorno e notte una fossa comune per quelli che preferivano essere
inumati, mentre, per gli altri, ardevano ininterrottamente alcuni
spaziosi crematori.
Enarchì prese a volo un librino
modestamente illustrato che se ne stava andando alla sua morte con
dignità. Gli avevano messo a bandoliera, per scherno o per errore, una
di quelle piccole fasce avventurose che procuravano a un libro una
sopravvivenza artificiale di poche settimane, o anche di pochi giorni,
prima dell’inevitabile fine. La fascia che adornava quel libro era
particolarmente arrogante e indecorosa, eppure il poveretto con candore
se ne compiaceva: Ventimila edizioni in un anno.
Era un libro, lo si vedeva dalla sua
mancanza di pungiglione e di dente, che non avrebbe mai versato il
sangue di un Suffeta. Stavamo quasi per tenercelo, perché era in chiari
caratteri e aveva simpatiche figure e un buon odore, e forse l’avremmo
addirittura letto, quasi certi di trovarlo poco interessante, in qualche
pausa del nostro viaggio, se quel caro amico, a malincuore ma
inflessibilmente, non si fosse rifiutato di appesantire il nostro
bagaglio d’ombra e di mettere distrazioni inopportune sulla via che ci
era prescritta. — Non avete più bisogno di libri, — osò dirci il libro.
Con modeste ali da pollo volò via verso il cimitero, dove un getto di
calce viva, avendo scelto la fossa comune, l’aspettava. >>
(Tratto da G. Ceronetti, Aquilegia. Favola sommersa, Einaudi, Torino 1988, pp. 85-89)
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