L'antico misterioso ghetto ebraico di Praga e 
le leggende fiorite intorno ad esso sono rappresentate in questo 
romanzo, il più noto di Meyrink.
"Avevo letto sino alla fine il libro, e ancora lo tenevo tra le mani; 
non un libro ero venuto sfogliando, ma il mio stesso cervello. Tutto ciò
 che la voce mi aveva detto io lo avevo portato dentro di me, nascosto e
 obliato, celato sino ad oggi alla mia mente”.
(Gustav Meyrink, 'Il 
Golem', capitolo “I”)
.
“Il Golem”, opera 
prima dello scrittore praghese Gustav Meyrink, è un romanzo visivo e 
visionario; felice fusione di mitologia, esoterismo e letteratura 
fantastica, e al contempo fedele riproduzione della vita nell’antico 
ghetto di Praga nei primi anni del Novecento. Non alieno da richiami 
alla cabala e ai tarocchi, efficace nella narrazione d’uno sdoppiamento 
di personalità e d’una confusa e controversa percezione della realtà, 
intreccia sogno e immaginazione, delirio e speranza con intelligente ed 
apprezzabile equilibrio. 
La storia: 
Ogni 
trentatré anni, come uno spettro, il Golem ricompare per gli stretti 
vicoli del quartiere ebraico, preceduto e annunciato da strani segni e 
da visioni. Prende l’aspetto di un uomo trasandato, dai tratti mongolici
 e dal viso giallastro, vestito d’abiti sbrindellati e dalla strana 
andatura; chi lo osserva, giura che stia sempre per cadere faccia in 
avanti. Quasi incarnasse il malessere e le angosce della comunità 
ebraica, desta confusione e scompiglio e terrorizza e sgomenta il 
popolo. D’un tratto, poi, scompare; quasi la sua apparizione avesse 
valenza catartica, quasi fosse l’ultimo grado di disordine prima del 
ritorno alla quiete o alla “normalità”: un’epidemia che assorbe e 
sublima, manifestandosi, ogni altra malattia. 
Elémire Zolla, nell’introduzione 
alla prima edizione Bompiani del libro, ricorda che la prima apparizione
 del Golem risale alle sacre scritture; verso 16 del salmo 138, dove si 
scrive: “I Tuoi occhi videro il mio golem e nel Tuo libro erano scritti 
tutti i giorni a me destinati prima che ne esistesse uno”. Golem, in 
questo frangente, dovrebbe avere lo stesso etimo del verbo che significa
 “avviluppare”: pertanto, a detta di Zolla, dovrebbe tradursi con “cosa 
ravvolta in se stessa, ancora informe”; una sorta di embrione, dunque.
È sempre il grande 
studioso a ricordare che nel tredicesimo secolo i cabalisti tedeschi 
parlano di due mistici, che letteralmente crearono un uomo: sulla 
fronte, aveva incisa la parola “emet”, verità. Quest’uomo disse ai suoi 
creatori: “Dio solo creò Adamo, e quando volle che Adamo morisse 
cancellò l’aleph, la prima lettera di emet: e allora egli rimase met, 
morto. Ecco che cosa dovete fare con me, e non creare un altro uomo, 
altrimenti il mondo soccomberà all’idolatria”. In altre parole: qualora 
l’uomo osi creare artificialmente la vita, allora egli pecca contro Dio. 
“Il 
Golem” di Meyrink è pur sempre un romanzo, non si pretende fedeltà alle 
tradizioni religiose o lineare continuità con le precedenti trattazioni 
letterarie:  e allora diciamo che è libro che sintetizza e rinnova la 
tradizione della leggenda popolare della creatura del praghese Rabbi 
Löw, raccontata un secolo prima da Grimm.
Intraprendiamo adesso un sentiero di lettura della trama. Il
 primo capitolo, intitolato “Sonno”, racconta il dormiveglia della voce 
narrante del romanzo; insonne, il protagonista non è più in grado di 
distinguere il sogno dalla realtà. Riesce ad astrarsi da se stesso, a 
vedersi dormire; e nel frattempo, meditando su alcune pagine della vita 
del Buddha, si trova a riviverne un frammento, e ad alterarlo; le pietre
 che immagina sembrano ad un tratto circondarlo, per comunicargli 
qualcosa. Ascolta una voce che non riesce a definire con compiutezza; è 
in una fase di scissione della personalità. 
Non 
sappiamo se si risvegli; nel capitolo successivo, titolato “Giorno”, 
egli si ritrova in un buio cortile, nel cuore del ghetto. Poco a poco, 
ricorda un nome: Athanasius Pernath. (Nome parlante, a dar retta 
all’etimo: a-thanatos, con alfa privativo: e cioè, “non-morte”). Questo 
nome si trovava scritto all’interno di un cappello d’un estraneo, che il
 narratore aveva indossato tempo prima: non ricorda dove, né come.  
Così, la memoria s’accende, per strane folate, nella sua mente: immagini
 si sovrappongono ad altre immagini, e si ricostruiscono storie, 
personalità, sentimenti. Tutto sembra nuovo, e al contempo sempre 
esistito. 
Il 
narratore riceve una visita. Un signore, dal volto giallastro, entra nel
 suo appartamento, comportandosi con insolita naturalezza. Questi prende
 a sfogliare un libro. Cerca un capitolo, lo trova e lo addita. Il 
capitolo s’intitola “Ibbur”, e cioè “fecondazione dell’anima”. La grande
 “I” iniziale è deteriorata. L’uomo incarica il nostro “Athanasius” di 
restaurarla. Le parole sono vive di fronte ai suoi occhi. Danzano. 
Trascinano il narratore alla visione. La visione del narratore è una 
donna gigantesca, e un corteo di coribanti, e una coppia che si 
avvinghia e si trasforma in un Ermafrodito seduto su un trono di 
madreperla.
Il 
protagonista comprende che può scegliere tra una e un’altra realtà: 
acquista coscienza, ma si perde nei suoi stessi sogni. Si vota al 
disorientamento.
E vive
 la vita dei suoi concittadini, nel ghetto, divisi tra due individui che
 sembrano incarnare l’uno il male e l’altro il bene, mentre il Golem 
appare terrorizzando tutti. Ed è romanzo di miracoli e incertezza, 
d’amore e di desolazione, di memorie immortali e fantasie sconvolgenti; 
confuso, certo, e intriso di angoscia e delirio; come un sogno.  Letteratura
 gotica, influenzata chiaramente da Poe e Hoffman; datata, ma certamente
 godibile e ancora fascinosa. Romanzo divertente e intrigante. 
“La mia immagine stava sulla 
soglia. Il mio doppio. In un mantello bianco. Una corona sulla testa. 
Per un breve istante. Quindi guizzarono le fiamme attraverso il legno 
della porta, e una calda nuvola di denso fumo soffocante invase la 
stanza”. (Gustav Meyrink, “Il Golem”, capitolo “Libero”).